La Camera Oscura

Il Giardino delle Danzatrici

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    Sinaida
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    00 23/01/2012 20:41
    Odalishe


    da: Wikipedia



    Un'odalisca era una schiava vergine, che poteva poi divenire concubina o sposa nei serragli dell'Impero Ottomano.
    La maggior parte di loro era parte degli harem dei sultani turchi.
    Nella cultura occidentale durante il diciannovesimo secolo, le odalische divennero figure comuni fantastiche nella pittura orientalistica, venendo raffigurate in molti quadri erotici del tempo.






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    Sinaida
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    00 23/01/2012 21:00

    La Gheisha (Part.I)


    La geisha (芸者) o gheiscia è una tradizionale artista e intrattenitrice giapponese, le cui abilità includono varie arti, quali la musica, il canto e la danza.

    Le geisha erano molto comuni tra il XVIII e il XIX secolo, ed esistono tutt'oggi, benché il loro numero stia man mano diminuendo.

    Nel mondo moderno e soprattutto in Occidente vengono erroneamente considerate come prostitute.




    Le prime figure presenti nella storia del Giappone che potremmo in qualche modo paragonare alle geisha sono le cosiddette saburuko: esse erano cortigiane specializzate nell'intrattenimento delle classi nobili, che ebbero il loro apice attorno al VII secolo per poi scomparire pochi secoli più tardi, soppiantate dalle juuyo, ossia prostitute di alto bordo, che ebbero più successo tra gli aristocratici.

    Per cominciare però a parlare di una figura simile all'odierna "donna d'arte", dobbiamo aspettare fino al 1600, quando alle feste importanti, dove erano chiamate le juuyo, presero a partecipare le prime geisha, che in principio erano uomini. Anche se può sembrare strano, queste figure maschili avevano il compito di intrattenere con danze, balli e battute di spirito gli ospiti e le juuyo partecipanti, qualcosa di simile ai nostri giullari e buffoni medioevali. Col passare degli anni, circa attorno alla metà del secolo successivo, cominciarono a comparire le prime donne geisha, che presero rapidamente piede, contrapponendo alle rudi figure degli uomini la grazia della figura e dei movimenti femminili. Fatto sta che donne geisha furono così tanto richieste che in pochi anni soppiantarono i loro antenati uomini, acquistando l'esclusiva su questa professione.

    Quando nel 1617, durante il periodo Edo, Tokugawa Hidetada, secondo shōgun dello Shogunato Tokugawa, rese la prostituzione legale in tutto il Giappone, bordelli e case di piacere si moltiplicarono a dismisura nelle città; poiché in questi anni la professione della geisha era ancora in via di assestamento, spesso questa figura e quella della prostituta si confusero. Infatti, anche se alle geisha fu subito proibito di acquistare la licenza di prostituzione[2], il controllo non era molto stretto. Fu solo nel XIX secolo, quando ormai le geisha avevano completamente soppiantato le juuyo, che si cominciarono ad emanare leggi più precise in tale proposito; in tutte le principali città del Giappone (Kyōto e Tokyo in particolare) furono approntati dei quartieri, detti hanamachi (花街? "città dei fiori"), perché in essi vi potessero sorgere le case da té (ochaya) e gli okiya (le case delle geisha), ben distinti dai bordelli, dove le geisha avrebbero potuto svolgere la loro professione, distinguendola definitivamente da quella delle prostitute. I primi hanamachi furono quelli di Kyoto, capitale imperiale, che avevano nome Yoshiwara e Shimabara.




    Nel frattempo, in Europa e nel mondo occidentale, il Giappone stava cominciando a fare la sua comparsa nella cultura popolare. Il fenomeno denominato giapponismo, infatti, alla fine dell'800 dilagò in tutto il continente, poiché le navi mercantili inglesi si trovarono d'improvviso davanti ad un porto nuovo, che fino ad allora era stato chiuso ai loro commerci: il Giappone, appunto, che tra il 1866 e il 1869, con un radicale cambiamento politico, pose fine al lungo periodo di isolamento che aveva caratterizzato la sua politica estera fino a quel momento, aprendosi alle importazioni occidentali ed esportando in occidente molte stampe ukiyo-e, che furono immediatamente molto conosciute.

    Artisti come Manet, Van Gogh, Klimt e tutto il movimento impressionista furono profondamente influenzati da queste stampe che, sebbene fossero eseguite da artisti contemporanei, si rifacevano a tradizioni pittoriche antichissime, che non si curavano tanto dei volumi e delle prospettive quanto del colore. Il tratto semplice e netto, privo di chiaroscuro, e la stesura omogenea dei colori, sempre smaglianti e chiari, furono aspetti che piacquero molto, all'epoca, poiché rendevano queste stampe (spesso applicate su tavole lignee) estremamente decorative. Il soggetto nipponico, quindi, cominciò spesso ad essere rappresentato anche da artisti europei, come Claude Monet, che dipinse la moglie con il kimono e il ventaglio, o lo stesso Van Gogh, che nel 1887 dipinse "La cortigiana", il ritratto di una donna nei tipici costumi nipponici
    .




    Il Giappone, insomma, aveva cominciato ad influenzare un po' tutti gli aspetti della vita quotidiana europea (furono rappresentate opere musicali sul tema, come The Mikado e la Madama Butterfly di Puccini, e all'inizio del '900 si affermò la moda dei kimono, indossati dalle signore bene di tutta Europa), ma la sua cultura, come spesso accade, fu travisata. In particolare la figura della geisha, appunto, che agli occhi degli occidentali divenne una donna sensuale e provocante, un'artista del sesso, che rifletteva quella rivolta contro il puritanesimo vittoriano che in quegli anni cominciava a svilupparsi maggiormente.

    Lo spirito, infatti, con cui i soldati americani sbarcarono sulle coste giapponesi, nella Seconda guerra mondiale, rifletté subito quest'idea distorta che gli occidentali avevano delle geisha. Costoro, infatti, si aspettavano prostitute di classe, donne completamente asservite all'uomo e desiderose di compiacerlo. Ma questa immagine che si erano portati dietro, non corrispondeva alla realtà, dove le geisha rappresentavano invece gli unici esempi nella civiltà giapponese di donne emancipate e "libere", tutto il contrario di come erano state dipinte.

    Nonostante questo, il mito della geisha prostituta, sottomessa e servile non terminò affatto con la fine del conflitto. Contribuì il fatto che, per compiacere i soldati, gli alti ranghi delle forze armate assunsero un vero e proprio esercito (più di 60.000 secondo lo storico orientalista John W. Dower) di prostitute, chiamate geisha girls, che contribuirono sia ad intrattenere gli uomini che a banalizzare ancor più la figura della geisha vera e propria. Difatti, dopo la vittoria americana, si cominciò a sviluppare, nella neonata Hollywood, un filone cinematografico molto prolifico, teso a ridisegnare ancora una volta la figura di queste donne, stavolta come arma anti-femminista. Le donne, infatti, che avevano preso il posto dei mariti, partiti per il fronte, negli enti pubblici e privati, rivendicavano ora con forza i loro diritti, e quale modo migliore di stroncare questi moti se non far tornare di moda la figura di una donna amorevole e sottomessa? Ecco che l'uomo torna, dopo la liberazione dal vittorianesimo, a rifugiarsi in oriente, per sentirsi servito e riverito.

    Solo di recente, complice l'editoria, con la pubblicazione di molti volumi e romanzi sull'argomento (sicuramente importante il celebre Memorie di una geisha di Arthur Golden), e la cinematografia, si sta riscoprendo la vera storia di queste donne, che non poteva essere più lontano da quanto fino ad oggi è stato creduto.

    [Modificato da Sinaida 23/01/2012 21:00]


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    00 23/01/2012 21:05

    La Gheisha(Part.II)


    Tradizionalmente le geisha cominciavano il loro apprendimento in tenerissima età. Anche se alcune bambine venivano e vengono ancora vendute da piccole alle case di geisha ("okiya"), questa non è mai stata una pratica comune in quasi nessun distretto del Giappone. Spesso, infatti, intraprendevano questa professione in maggior numero le figlie delle geisha, o comunque ragazze che lo sceglievano liberamente.

    Gli okiya erano rigidamente strutturati; le fanciulle dovevano attraversare varie fasi, prima di diventare maiko e poi geisha vere e proprie, tutto questo sotto la supervisione della "oka-san", la proprietaria della casa di geisha.

    Le ragazze nella prima fase di apprendimento, ossia non appena arrivano nell'okiya, sono chiamate "shikomi", e venivano subito messe a lavoro come domestiche. Il duro lavoro al quale erano sottoposte era pensato per forgiarne il carattere; alla più piccola shikomi della casa spettava il compito di attendere che tutte le geisha fossero tornate, alla sera, dai loro appuntamenti, talvolta attendendo persino le due o le tre di notte. Durante questo periodo di apprendistato, la shikomi poteva cominciare, se la oka-san lo riteneva opportuno, a frequentare le classi della scuola per geisha dell'hanamachi. Qui l'apprendista cominciava ad imparare le abilità di cui, diventata geisha, sarebbe dovuta essere maestra: suonare lo shamisen, lo shakuhachi (un flauto di bambù), o le percussioni, cantare le canzoni tipiche, eseguire la danza tradizionale, l'adeguata maniera di servire il tè e le bevande alcoliche, come il sake, come creare composizioni floreali e la calligrafia, oltre che imparare nozioni di poesia e di letteratura ed intrattenere i clienti nei ryotei.

    Una volta che la ragazza era diventata abbastanza competente nelle arti delle geisha, e aveva superato un esame finale di danza, poteva essere promossa al secondo grado dell'apprendistato: "minarai". Le minarai erano sollevate dai loro incarichi domestici, poiché questo stadio di apprendimento era fondato sull'esperienza diretta. Costoro per la prima volta, aiutate dalle sorelle più anziane, imparavano le complesse tradizioni che comprendono la scelta e il metodo di indossare il kimono, e l'intrattenimento dei clienti. Le minarai, quindi, assistevano agli ozashiki (banchetti nei quali le geisha intrattevano gli ospiti) senza però partecipare attivamente; i loro kimono, infatti, ancor più elaborati di quelle delle maiko, parlavano per loro. Le minarai potevano essere invitate alle feste, ma spesso vi partecipavano come ospiti non invitate, anche se gradite, nelle occasioni nelle quali la loro "onee-san" (onee-san significa "sorella maggiore", ed è l'istruttrice delle minarai) era chiamata. Abilità come la conversazione e il giocare, non venivano insegnate a scuola, ma erano apprese dalle minarai in questo periodo, attraverso la pratica. Questo stadio durava, di solito, all'incirca un mese.

    Dopo un breve periodo di tempo, cominciava per l'apprendista il terzo (e più famoso) periodo di apprendimento, chiamato "maiko". Una maiko è un'apprendista geisha, che impara dalla sua onee-san seguendola in tutti i suoi impegni. Il rapporto tra onee-san e imoto-san (che vuol dire "sorella minore") era estremamente stretto: l'insegnamento della onee-san, infatti, era molto importante per il futuro lavoro dell'apprendista, poiché la maiko doveva apprendere abilità rilevanti, come l'arte della conversazione, che a scuola non le erano state insegnate. Arrivate a questo punto, le geisha solitamente cambiavano il proprio nome con un "nome d'arte", e la onee-san spesso aiutava la sua maiko a sceglierne uno che,secondo la tradizione deve contenere la parte iniziale del suo nomee che secondo lei, si sarebbe adattato alla protetta.

    La lunghezza del periodo di apprendistato delle maiko poteva durare fino a cinque anni, dopo i quali la maiko veniva promossa al grado di geisha, grado che manteneva fino al suo ritiro. Sotto questa veste, adesso, la geisha poteva cominciare a ripagare il debito che, fino ad allora, aveva contratto con l'okiya; l'addestramento per diventare geisha, infatti, era molto oneroso, e la casa si accollava le spese delle sue ragazze a patto che queste, lavorando, ripagassero il loro debito. Queste somme erano spesso molto ingenti, e a volte le geisha non riuscivano mai a ripagare gli okiya.



    Ancora oggi, comunque, le geisha esistono, sebbene in minor numero. Le comunità che resistono sono principalmente quella di Tokyo e quella di Kyōto, la più importante. In quest'ultima esistono cinque hanamachi, i più famosi ed importanti dei quali sono quelli di Gion (diviso in Gion Kobu e Gion Higashi) e di Pontochō (gli altri due sono Miyagawacho e Kamishichiken), mentre Tokyo ne conta sei, anche se di minore importanza, Shimbashi, Akasaka, Asakusa, Yoshicho, Kagurazaka e Hachioji. Le geisha di Kyōto vivono ancora nei tradizionali okiya, e persistono figure come l'oka-asan, mentre fuori da questa città sempre più spesso queste decidono di vivere indipendentemente, in appartamenti nell'hanamachi o nei suoi pressi.

    Le giovani donne che desiderano diventare geisha cominciano il loro addestramento sempre più tardi, dopo aver terminato un primo piano di studi nelle scuole statali, o persino l'università. Questo accade specialmente nelle città più popolate e aperte alla cultura occidentale, come Tokyo, dove le geisha sono, in media, più anziane rispetto a quelle di altre città.

    Nel moderno Giappone è raro vedere geisha e maiko all'esterno del loro hanamachi. Nel 1920, infatti, c'erano più di 80.000 geisha in tutto il Giappone, ma oggi sono molte meno; il numero esatto non è noto se non alle geisha stesse (che sono molto protettive nei confronti del mistero che, anche nello stesso Giappone, aleggia attorno alla loro figura), ma si stima non siano più di un paio di migliaia. Molte di loro, inoltre, sono ormai quasi solamente un'attrazione turistica. La diminuzione dei clienti, infatti, con l'avvento della cultura occidentale, e la grande spesa che occorre pagare per ottenere l'intrattenimento di una geisha, hanno contribuito al declino delle antiche arti e tradizioni, che oggi sono difficili da trovare.






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    00 24/01/2012 14:36

    Le Danzatrici del Ventre




    FONTE: Wikipedia


    La danza orientale è una danza originaria del Medio-Oriente,le cui origini pare risalgano agli antichi riti sulla fertilita',associata sia alla religione che all'esoterismo e al culto della Dea Madre.
    In senso stretto, il termine indica la danza classica orientale che si è sviluppata nelle corti principesche del Medio-Oriente ,ma non solo: inn un senso più vasto,infatti, può indicare tutte le forme che si conoscono al giorno d'oggi.

    Durante la Campagna d'Egitto di Napoleone, i soldati francesi vennero a contatto con questa danza: provenendo da una società relativamente puritana, il movimento sinuoso dei corpi delle danzatrici veniva percepito come un potente afrodisiaco.
    Nell'Inghilterra all'epoca questa danza era considerata azione del demonio: il sinuoso ancheggiare del bacino delle danzatrici venne erroneamente associato come invito alla prostituzione.
    È da questo motivo, ancora oggi associato alla danza, che dipende il termine "danza del ventre".




    La danza orientale è tradizionalmente praticata dalle donne, perché esprime interamente la femminilità, la vitalità e la sensualità.
    Essa è unica nel suo genere ed esistono diversi stili, che cambiano a seconda del Paese d'origine, come ad esmpio la danza col velo. In generale, questa danza è caratterizzata dalla sinuosità e dalla sensualità dei movimenti: è di effetto sia con musiche ritmate che lente.

    La condizione sociale delle Ghawazee,ossia le danzatrici del ventre, risulta dalle informazioni in nostro possesso, simile a quella di tutte le popolazioni "zingare", una vita prevalentemente relegata ai bordi delle società così dette più evolute.
    Anche nell'Egitto del XVIII secolo valeva la stessa regola e le Ghawazee appartenenti alla schiera delle tribù nomadi, viveva al di fuori dei grandi centri urbani in accampamenti provvisori. Distinguendosi dall'atra più "rispettabile" categoria quella delle Almee, le rappresentazioni delle Ghawazee, spontanee manifestazioni di strada, si avvalevano spesso,della collaborazione dei componenti maschile della tribù per l'accompagnamento musicale.

    La discutibile "cattiva" reputazione di cui godevano tali danzatrici, malviste anche dagli esponenti religiosi, impediva loro l'accesso ai riservati Harem ed era ritenuto sconveniente, ospitare una "zingara" nella propria abitazione.
    Anche se in molte celebrazioni, quali matrimoni, circoncisioni ecc, veniva loro concesso di esibirsi ma quasi sempre in luoghi all'aperto. La reputazione delle Ghawazee non è di molto dissimile da quella che accomuna le Ouled Nail al pari di Danzatrici-prostitute.

    Il vestiario, prevedeva nelle sue diverse combinazioni l'uso variabile sia di un lungo che un corto abito. Quello lungo,detto "Yelek", che generalmente stretto in vita e dall'ampia scollatura era indossato lasciato aperto dalla vita sino ai piedi.Il più corto, più simile ad un coprpetto era lungo sino al giro vita e sempre dalla profonda scollatura era aderente in vita.

    In quest'ultimo caso una gonna (Tob) veniva indossata in mancanza dell'abito lungo.Una aderente "camicetta" dalle ampie lunghe maniche era generalmente indossata sotto i due precedenti indumenti. Comune alle possibili varianti era sempre l'uso dell'ampio ed a volte decorato pantalone "shintyan" (harem pants). Immancabile naturalmente l'uso della fascia annodata sui fianchi, ricordo forse ancestrale degli antichi costumi rituali, emblema simbolico della dea Ishtar, le ricche decorazioni tra i capelli e la ricorrente mancaza di veli sul volto

    Monili, bracciali, cavigliere e orecchini completavano insieme alle immancabili decorazioni con l'henna e l'antico e sapiente uso del khol, usato sia per il trucco che per la stessa protezione degli occhi, l'abbigliamento delle originarie danzatrici Ghawazee del Diciannovesimo secolo.




    Il nome Almeh o Almee, al plurale Awalim, deriva dalla parola Araba "Alema" e sta a significare "una donna istruita".
    E' proprio la ricevuta "istruzione" che rendeva questa categoria estremamente raffinata e privilegiata a cui era consentito l'ingresso agli ambiti sociali più ristretti e primo tra tutti il riservatissimo Harem.
    La grande differenza tra queste due distinte categorie di interpreti si basa sul fatto che le Ghawazee sono da considerarsi come interpreti "popolari" di bassa estrazione sociale, che si esibivano prevalentemente in spettacoli di strada, al pari degli ambulanti alla presenza di un qualsiasi pubblico "pagante".

    Le Almeh, sicuramente più raffinate ed appartenenti ad una classe sociale più elevata avevano libero accesso ed erano assai gradite presso i ranghi sociali più elevati, esibendosi prevalentemente in presenza di un pubblico femminile nelle arti del canto e della danza con eleganza ed estrema raffinatezza. Altra particolarità che distingueva questa specifica categoria, era la rigida consuetudine di portare sempre, a differenza delle ghawazee, il velo nei luoghi pubblici.

    Le due raffigurazioni, ovviamente simili tra loro differiscono fortemente dalle seppur esigue informazioni di cui siamo in possesso. L'abbigliamento, l'assenza del velo e la rappresentazione di fronte ad un pubblico "esclusivamente" maschile lascia pensare ad una interpretazione più vicina alle caratteristiche di una Ghawazee piuttosto che ad una Almeh. Anche il solo confronto visivo con la prima immagine "Almee ou danseuse egyptienne" mette in evidenza la netta discrepanza con un abbigliamento fondamentalmente diverso e decisamente più "castigato". La diversità di informazioni in nostro possesso è quindi molto contraddittoria e non permette una valutazione effettiva sull'argomento. Si deve forse alla originaria danza delle Almeh l' attuale Raqs Sharqi che trova nella raffinata esecuzione e nella elegante gestualità delle braccia la sua forse più possibile erede.

    La figura delle Almee, rinomate nelle arti canore, musicali e della danza, ha il suo inevitabile declino intorno agli anni 30. Epoca questa di cambiamenti che contrariamente ad una propria origine culturale mirata allo straordinario connubio tra canto e danza, si sposta esclusivamente verso l'intrattenimento visivo ed esibizionistico sviluppandosi secondo direttrici prettamente occidentali che portarono a quella particolare esecuzione della danza comunemente detta stile "cabaret".




    [SM=p2798929]




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    00 24/01/2012 15:02

    La Sposa Indiana




    FONTE


    In India il matrimonio è considerato un sacramento, che proporziona non solo la continuità familiare nei figli, ma anche il mezzo per ripagare il proprio debito agli antenati.

    Secondo i Veda ,infatti, la vita degli Indù è scandita da tappe necessarie ed auspicabili e dopo aver compiuto con lo stadio di studente, l'uomo deve passare alla seconda tappa, quella di padrone di casa, Grihastha.
    Il matrimonio è una unione indissolubile non solo tra gli sposi, ma anche tra le due famiglie degli stessi.
    Si tratta, nella quasi totalità, di matrimoni organizzati dalle famiglie.
    E' obbligo morale dei genitori prepararsi mentalmente e finanziariamente per compiere correttamente il precetto di accasare i figli, quando l'età adatta si avvicina.
    Si comincia allora a cercare un partner ideale considerando diversi fattori come: casta, credo, quadro astrale di nascita, stato sociale ed economico della famiglia.
    Tradizionalmente i costi della festa di nozze sono a carico della famiglia della sposa, che viene dotata di importante corredo di gioielli e regali vari per impressionare favorevolmente i futuri suoceri. Sfortunatamente questa tradizione ha aggravato l'avidità popolare finendo per costituire la terribile trappola del sistema della dote, dowry, che distrugge l'economia di famiglie intere e causa la non-nascita o l' infanticidio di migliaia di bambine indiane.




    Il matrimonio d'amore non è generalmente contemplato ed è anzi altamente osteggiato dai religiosi ortodossi.
    Questo perchè solitamente un matrimonio d'amore può trascendere e sfidare le barriere di casta, credo ed età.
    Nonostante ciò, nella letteratura e nella storia indiana compare la possibilità di una scelta autonoma oggi molto più frequente di un tempo tra le caste benestanti.
    Il rito del Swayamvaras, durante il quale le ragazze scelgono il loro sposo tra tanti giovani riuniti, era in uso tra i Rajput e continua ad esserlo anche tra alcune tribù.
    Nel Mahabharata, il più grande poema epico-religioso indù, si raccomanda che le ragazze, passati 3 anni dalla comparsa della pubertà cerchino durante il quarto anno un compagno per proprio conto; e si specifica che non aspettino oltre che i familiari lo scelgano per loro.
    Questo " non attendere oltre " ha portato ai matrimoni infantili per le ragazze.
    Anche la poligamia era contemplata nelle Scritture ma, avversata legalmente da tempo, oggi non è concepibile. Si sono verificati casi di Indù convertiti all' Islam allo scopo di aumentare il numero di mogli.
    Oggi, ove dimostrabile, vengono perseguiti per legge.

    Il matrimonio indù prevede diverse tappe, in una cerimonia unica e coloratissima e festeggiamenti che durano giorni. Naturalmente esistono moltissime varianti regionali e familiari ma a seguito si elencano le principali e le più comuni.


    PRIMA DEL MATRIMONIO

    Il giorno prima del matrimonio i piedi e le mani della sposa vengono dipinti con l'hennè, con la tecnica chiamata Mehndi. E' una vera e propria cerimonia, una sorta di addio al nubilato a cui partecipano le amiche e le parenti della sposa; musica tradizionale accompagnava un tempo i loro canti beneaugurali e allusivi, oggi sempre più spesso sostituiti dalle hits dei films bollywoodiani.
    Un Mandapa, un grande gazebo, viene montato e decorato con fiori nel luogo ove si celebrerà il matrimonio.




    DURANTE IL MATRIMONIO

    Un fuoco viene acceso sotto il Mandapa a testimone dei voti degli sposi. Comincia la lunga cerimonia di origine vedica, ove ogni aspetto della futura vita matrimoniale verrà rappresentato.
    Arriva lo sposo in processione, nell'Ovest del paese spesso a cavallo, accompagnato da famiglia e amici festanti e viene accolto dalla famiglia della sposa.
    Cominciano i riti presieduti dal sacerdote brahmano, che invoca la benedizione di Dio sugli sposi. La sposa offre yoghurt e miele allo sposo e ci si scambiano ghirlande di fiori. Si offrono noci di cocco, petali di fiori, burro chiarificato etc.

    Il padre della sposa affida la figlia allo sposo dopo che questi promette di assistere la ragazza nella realizzazione dei tre sacri scopi matrimoniali, Dharma, Artha, e Kama.
    Lo sposo ripete tre volte la promessa.

    Il Sacerdote lega il lembo finale del Sari della sposa al bordo camicia dello sposo o della sua sciarpa di gala, in un nodo. Gli sposi si scambiano anelli e ghirlande, si prendono per mano e gettano offerte rituali, Samagree, nel fuoco sacro invocando benedizioni sulla loro unione.
    Gli sposi per mano camminano 3 volte intorno al fuoco sacro recitando inni vedici per la prosperità, la fortuna e la fedeltà della coppia. Si toccano mutuamente all'altezza del cuore o sul capo, pregando per l'unione delle loro menti e dei loro cuori.
    L'intero rito è ripetuto altre due volte.

    Al termine di ogni giro intorno al fuoco, lo sposo sale su di una pietra apposita o una piccola pedana, recitando una preghiera per la fermezza della loro unione, al termine della quale la sposa appoggia la punta del piede destro sulla stessa pietra.
    La parte principale e centrale del rito, i sette passi.
    Gli sposi compiono insieme sette passi intorno al fuoco sacro o lungo un percorso segnato da sette mucchietti di riso, fiori e altri simboli di prosperità sui quali procederà la sposa, ed ad ogni passo reciteranno invocazioni e promesse per la loro futura vita coniugale. Al termine gli sposi sono marito e moglie.

    Lo sposo allaccia alla sposa un girocollo, mangalasutra, contenente i simboli di Shiva o Vishnu e che costituisce l'insegna di donna sposata, a seconda della regione aggiungendo anche gli anelli alle dita dei piedi o una fede nuziale.




    Lo sposo pone una polvere rossa, Sindoor, nella scriminatura centrale dei capelli della sposa e sulla fronte, a simbolizzare la sua nuova condizione di donna sposata.
    La famiglia dello sposo offre doni alla sposa e l'assemblea tutta lancia petali di fiori verso la nuova coppia.
    Gli sposi partono per la loro casa, spesso quella familiare del ragazzo, portando con loro in un bracere il fuoco sacro di fronte al quale si sono sposati. Anticamente andava tenuto costantemente vivo.

    La famiglia della sposa la saluta tra lacrime e felicità. Il sacerdote pone una noce di cocco sotto la ruota della macchina o anticamente del carro o sotto lo zoccolo del cavallo e ne attende la rottura alla partenza.

    La costellazione dell' Orsa Maggiore, Sapta Rishi Mandala, è formata da stelle che portano i nomi dei 7 saggi mitologici che originarono la tradizione vedica. Gli sposi la omaggiano nominando le sette stelle più un'ottava, Arundhati, per ricordare le responsabilità cosmiche che sono chiamati a onorare, l'eredità che portano e il debito che devono onorare verso i saggi e gli avi.

    Fare il nodo o I sette passi sono in India le comuni metafore utilizzate per indicare il matrimonio, come da noi, per esempio, parlare di Fiori d'arancio.











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